Le differenti tecniche di stretching ed i loro meccanismi ed effetti

Lo stretching è un movimento applicato da una forza esterna e/o interna al fine di aumentare la flessibilità e/o l’ampiezza del movimento articolare. [1]

La flessibilità fa parte delle capacità condizionali ed è la capacità di compiere movimenti con ampiezza appropriata in determinate articolazioni [2].

Per sviluppare una buona flessibilità è fondamentale tenere in considerazione l’interazione tra:

  • articolarità, cioé l’escursione reciproca delle parti mobili di un’articolazione;
  • estensibilità, cioé  la capacità di allungamento del tessuto muscolare.

L’articolarità è poco allenabile perché dipende dall’anatomia ossea del soggetto, basti pensare alle differenze uomo/donna per le ossa del bacino. Il bacino delle donne, infatti, si sviluppa in larghezza per far fronte alla gravidanza e permette una maggior mobilità articolare, mentre quello maschile è più corto e pesante per sorreggere un peso corporeo maggiore.

L’estensibilità, come tutte le altre qualità fisiche e motorie, è migliorabile attraverso stimoli allenanti e i muscoli potrebbero essere allungati a circa il 67% della loro lunghezza a riposo senza lesionarsi. [3].

A seguito di questa distinzione, oltre alle ossa e muscoli, intervengono altri fattori fisiologici quali: il tessuto connettivo (epimisio, perimisio e endomisio) che riveste il muscolo, i legamenti che collegano le ossa tra loro, tendini che uniscono il muscolo alle ossa, il sistema nervoso, l’interazione tra muscoli agonisti ed antagonisti, fattori ormonali ecc..

Lo stretching possiamo considerarlo un allenamento vero e proprio, che con i suoi metodi di applicazione permette al corpo di sviluppare una serie di adattamenti in base ai diversi stimoli.

Le tecniche di stretching vengono utilizzate all’interno di protocolli di allenamento e di riabilitazione ed ognuna con obiettivi specifici, fra i quali:

  • Tecniche di stretching statico passivo
  • Tecniche di stretching statico attivo
  • PNF
  • Tecniche di stretching dinamico  
  • Tecniche di stretching rilassato prolungato

Lo stretching statico passivo consiste nel mantenimento di una posizione di allungamento grazie ad una forza esterna, che sia con l’aiuto di un’altra persona o con un attrezzo (ad esempio cinghie, muro o pavimento). Il muscolo in questo caso non è contratto volontariamente ma mantiene semplicemente il suo tono di base.

Nello stretching statico attivo invece la posizione viene mantenuta nel tempo grazie all’attivazione dei muscoli agonisti e al rilassamento degli antagonisti sviluppando la forza isometrica. Lo stretching statico, attivo o passivo, lavora sull’elasticità muscolare e sui tendini. [4]

Al contrario, nel PNF (facilitazione propriocettiva neuromuscolare) vengono attivati i meccanismi neurofisiologici come l’inibizione reciproca riflessa attraverso fasi di contrazione e rilassamento combinate aumentando di volta in volta il ROM. [5]

Ciò che accade è che quando arriva l’impulso dal cervello per contrarre il muscolo agonista (quadricipite femorale) oltre ad essere attivati i motoneuroni (α) viene attivato l’interneurone inibitorio (Ia)  che media l’inibizione reciproca riflessa e permette al muscolo antagonista (posteriori della coscia) di rilasciarsi durante la contrazione del muscolo agonista.

Lo stretching dinamico include movimenti lenti e controllati ripetuti per raggiungere progressivamente il massimo ROM.

Lo stretching rilassato prolungato prende spunto dallo Yin Yoga e si pratica con posizioni di allungamento mantenute per un periodo di tempo abbastanza lungo (30’’-5 min) accompagnate da un respiro profondo dando enfasi sia a livello neurofisiologico per tempi più brevi passando a modificazioni strutturali per tempi più lunghi. 

Gli esercizi di stretching in generale sono determinanti per la salute delle articolazioni e muscoli ma possono essere un’arma a doppio taglio se non vengono considerate le caratteristiche soggettive come l’età, patologie, grado di allenamento e gli obiettivi, questo perché, ad esempio, si svolgono in momenti vicini all’allenamento compromettendo la performance sportiva o il recupero. 

 

 

 

 

Bibliografia 

1) Taylor et al., 1990

2) Grosser & Zimmerman, 1987

3) Alter, 1996

4) Bandy WD & Irion JM., 1994

5) Enoka, 2002